Da che cosa nasce un’insufficienza formativa? Il TUO insuccesso scolastico o universitario?

Certo, da mancanza di studio. Che a volte deriva anche da un metodo di studio fragile o inefficace.

Ma, oltre allo studio e al metodo, c’è forse un disagio. Lo hai mai ascoltato?

Qualcuno ti ha mai ascoltato?

Perché forse quel disagio, insieme a tutto il resto, influisce sull’atteggiamento che hai verso il progetto di studio. Ci sono ostacoli emotivi che non possono essere rimossi senza prima essere portati alla luce della consapevolezza.

Per esempio, non credere in se stessi. Non credere che è possibile trasformare il proprio percorso. Non provare il gusto di un sogno, che poi si fa impegno e traguardo da raggiungere. Non sapere assumersi una responsabilità.

Il counseling per lo studio, scolastico o universitario, mira proprio a questo:

  • comprendere gli ostacoli -metodologici o emotivi- che provocano l’insuccesso formativo;
  • migliorare l’atteggiamento nei confronti dello studio;
  • comprendere quegli aspetti della persona che, da debolezze, possono diventare risorse;
  • riscoprire il gusto di un progetto come espressione delle energie individuali;
  • conquistare una maggiore autonomia come condizione del successo formativo.

Il counselor (ai sensi della legge 04/2013) non è uno psicologo, né uno psicoterapeuta, né uno psichiatra. Non somministra test, non formula diagnosi, non prescrive alcuna terapia né farmaco. Non si occupa di situazioni patologiche né di DSA. Il counselor cerca di creare uno spazio di relazione e di dialogo perché il soggetto in difficoltà comunichi in modo libero le proprie emozioni, legga con consapevolezza la sua situazione personale, trovi in sé le risorse per il cambiamento.

Come? Ascoltando, parlando, anche attivando strategie creative: risorse che permettono di rigenerare la nostra memoria e di cercare insieme un varco.

Serve, però, che TU lo voglia davvero.

Nessuno può farlo al posto tuo. Ma qualcuno può stare al tuo fianco.

Raccontiamo di seguito un’ esperienza del nostro counselor.

Qualche anno fa, due ragazzi si rivolsero a me per lo studio estivo: avrebbero dovuto sostenere in settembre gli esami di riparazione, Chiara in Greco, Massimo in Latino.

Abbiamo iniziato a lavorare insieme: ho organizzato tecnicamente il loro studio, calendario alla mano, distribuendo il programma da studiare nei giorni disponibili. Teoria, esercitazioni, approfondimenti, ripasso. Tutte cose che, come insegnante, penso di saper fare.

Ovviamente, abbiamo cercato di rafforzare i punti deboli del metodo di studio:

  • come documentare una lezione;
  • come archiviare i materiali;
  • come ritrovare le informazioni;
  • come riusare le informazioni;
  • come elaborare un testo;
  • come risolvere problemi in modo autonomo;

Ma, a mano a mano che il lavoro procedeva, percepivo che ciascuno dei due, in modi differenti, opponeva, pur senza saperlo, una resistenza: essa era dovuta non solo al fatto di sapere o non sapere certi contenuti della materia, ma anche ad un disagio interiore nei confronti dello studio.

Pian piano, anche grazie agli spunti offerti dai testi da tradurre, ho provato ad entrare delicatamente nelle loro emozioni. E ho scoperto che il problema non era se avessero studiato o no delle cose, ma il loro atteggiamento verso quello che studiavano. Chiara non amava il Greco perché nessuno gliene aveva mai rivelato la poesia, nessuno l’aveva mai fatta vibrare per quei brani di Platone. E poi veniva da una famiglia benestante, che soddisfaceva ogni suo bisogno senza darle il gusto di conquistare da sola il suo successo. Massimo, un ragazzo sportivo dal fisico palestrato e in apparenza molto sicuro di sé, una volta scoppiò in lacrime, perché nessuno gli aveva mai insegnato a studiare con ordine; e la sua prestanza fisica era un’armatura per nascondere un profondo senso di insicurezza: era convinto di non poter riuscire negli studi e di deludere le persone che amava.

Così, ho continuato a lavorare con loro, macinando Greco e Latino senza pietà, ma cercando anche di ascoltare le emozioni, la fragilità, la paura. Ed anche le cose meno belle, come la pigrizia e la mancanza di senso di responsabilità. Senza vergogna, senza giudizio, ma con l’autentica intenzione di portare alla luce la versione migliore di quei ragazzi.

Furono promossi a settembre, certo. Ma la cosa più importante è che si erano dati un’altra possibilità: la possibilità di innamorarsi nuovamente dello studio, del loro progetto di vita, di se stessi. Di capire l’importanza della passione, che è quella che poi ti fa volare, anche a scuola.